Oggi vi proponiamo un contributo, delicato e arguto, scritto per noi dalla Dott.ssa Giovanna Rodolfi, esperta di pedagogia, di cui negli scorsi anni vi abbiamo spesso parlato in relazione al suo studio compiti (lo Studio DiSegni). Ci piace molto e, semplicemente, vi consigliamo di leggerlo!
Rubo una frase dal messaggio di un’amica speciale:
“Lo stare in casa ci porta a stare con noi stessi e a dare il giusto valore alle cose, senza correre”.
Quante volte lo ripetiamo e ce lo ripetiamo in questi giorni, in bilico tra il tentativo tenero e un po’ maldestro di trovare un lato positivo in questo incubo e il desiderio di cristallizzare questo pensiero, nel timore che, non appena ricominceremo a respirare, tutto torni come prima e che questo dolore indicibile non sia servito a nulla.
Uno dei miei peggiori difetti è di dover dare un senso alle cose. Non c’è niente da fare, è sempre stato così.
La mia infanzia è rientrata per un soffio nella moda pedagogica per cui ai bambini si doveva spiegare tutto. Proprio tutto. I no e i sì. Gli eventi epocali e le faccende di poco conto. Le opinioni personali e le decisioni. Quindi io devo spiegare e devo darmi una spiegazione. Non si scappa. Devo capire. È quello che cerco di fare lavorando con i bambini: usare la pagina di un libro di testo, un compito, una lezione, per alimentare la curiosità di sapere, per innamorarci sempre un po’ di più della conoscenza, per capire meglio cosa c’è dentro e fuori di noi, per imparare a vivere la responsabilità con passione. Con allegria, quando si può.
Ora, poiché questa tragedia in cui siamo immersi ci toglie tante cose, ma ci regala un sacco di tempo, ho pensato a lungo a come mettere assieme tutti questi pensieri sparpagliati, non certo per Trovare un senso a questo storia anche se questa storia un senso non ce l’ha (secondo furto a un ‘amico’ illustre…), ma almeno per individuare alcune parole che potessero servire in questa quotidianità innaturale in cui bambini e adulti sono costretti a reinventarsi, in spazi e tempi nuovi e obbligati, liberi e insieme orfani dei riferimenti noti, talvolta opprimenti ma rassicuranti.
Certamente la scuola è uno di questi, uno spazio dedicato alla distanza e all’autonomia, un tempo scandito e personale per sperimentarsi diversi e trovare percorsi di crescita altri rispetto a quelli familiari. La scuola c’è sempre e c’è per tutti. E il fatto che improvvisamente manchi, e per un tempo indefinito, rappresenta un cambiamento che sgomenta e il primo segnale veramente inequivocabile che ci troviamo in una condizione di emergenza estrema.
È encomiabile lo sforzo del corpo docente per mantenere viva la connessione emotiva e formativa con i bambini e la capacità di rimodulare la relazione educativa a questo scopo. Ma non è la stessa cosa e l’apprendimento diventa una faccenda più domestica di prima in cui, terminato il tempo che quotidianamente viene dedicato alla didattica on line, bambini e adulti si ritrovano a condividere un ‘fare scuola’ dilatato nei tempi e inedito negli strumenti, costantemente in bilico tra l’opportunità e il rischio di collisione emotiva.
Una delle rare certezze che ho riguarda l’assurdità della pretesa di indicare ‘ricette’ uguali per tutti quando si tratta di esseri umani.
Quando si tratta di bambini poi, neanche a parlarne. Quindi io non ritengo di poter insegnare agli adulti come devono insegnare ai bambini. Mi permetto solo di suggerire, come dicevo, alcuni spunti di riflessione che si condensano in parole che in questi giorni mi salgono alla mente più frequentemente di altre.
Lo faccio sommessamente (come si usa dire adesso), con ancora più rispetto e prudenza del solito.
La prima a cui penso sovente è flessibilità. È una parola che, per assurdo, mi richiama all’ordine di questi tempi e mi mette alle strette, costringendomi a fare i conti con la sua assenza in tanti miei comportamenti e pensieri. È una parola importante per sopravvivere in una realtà stravolta. Necessaria per i bambini, che, vale la pena ricordarlo, sono bambini in gabbia, con un peso sulle spalle estraneo a ogni logica e fuori misura.
La flessibilità, nella mia concezione, sta a una distanza siderale da parole come: dabbenaggine, irresponsabilità, inaffidabilità, superficialità. In altri termini, essere flessibili non significa fare ciò che si vuole. Al contrario, significa semmai rispettare il proprio compito e affrontarlo con serietà e impegno, dandosi però il permesso di scegliere il metodo e gli strumenti più vicini al proprio sentire, di mettere anche da parte (se occorre) il libro di testo per tracciare altrove un nuovo sentiero di apprendimento.
La flessibilità in ambito educativo significa, tra l’altro, garantire un’attenzione particolare al percorso e non esclusivamente all’obiettivo. Questo, che ormai da tempo è celebrato come un dogma, nella situazione che stiamo vivendo diventa uno strumento imprescindibile e ci sfida ad agirlo in una pratica quotidiana che, come tutti sappiamo, è sempre più complicata di qualsiasi teoria.
A ben guardare, essere flessibili con i bambini e i loro compiti, oltre a favorire una relazione empatica e collaborativa, offre altri vantaggi:
- insegnare ai bambini che si può integrare in modo efficace il rispetto delle regole e la creatività, il dovere e la fantasia, e che è apprezzabile ricercare uno stile autonomo e originale per perseguire un obiettivo che rimane comunque il focus del proprio impegno;
- sottolineare, attraverso un parallelismo non cercato ma evidente tra la rigidità di una quarantena resa plasticamente dalle mura domestiche e quella (certo meno drammatica ma altrettanto vincolante) del programma scolastico, l’importanza di sapersi ritagliare un proprio spazio di autonomia, un modo personale per abitare il proprio raggio d’azione, salvaguardando sia la propria unicità, sia il valore della disciplina;
- spiegare la complessità come opportunità di crescita a partire dall’ordine gerarchico in cui collochiamo le nostre priorità. Mai come ora le cose importanti surclassano le sciocchezze e si avverte una sete insaziabile di sostanza, di significato, mentre la forma come vuoto paravento rimane sullo sfondo. Un abito fuori moda, fastidioso anche solo da guardare;
- riempire con autorevolezza il proprio ruolo adulto, di chi guida e sceglie, di chi si assume la responsabilità della flessibilità. L’adulto acconsente alla deroga, se motivata, accompagna il percorso di apprendimento attraverso l’ascolto e il confronto, offre suggestioni, controlla il risultato, rilancia stimolando la curiosità, favorendo domande e condividendo risposte.
La messa in pratica di un approccio educativo flessibile mi suggerisce, tra le altre, la parola linguaggi. Linguaggi plurali, altri, inconsueti, inusuali. Linguaggi amici del bambino e amici dell’adulto confrontati e mescolati, senza timori e pregiudizi.
Chi l’ha detto che per studiare la polis greca, il congiuntivo, le proprietà dell’addizione, ecc. ecc., sia necessario rimanere incollati alle pagine dei libri di testo? Si tratta di un linguaggio che, seppur importante, può fungere da trampolino per saltare altrove. E per sapere dove saltare consiglio due traiettorie principali:
- l’adulto segue il bambino e i suoi gusti, le sue modalità consuete, i suoi ritmi. In molti casi il testo scritto come unica fonte è già di per sé distante dalla sensibilità dei bambini, figuriamoci in una condizione sospesa in cui la noia dilaga inondando le giornate che sembrano susseguirsi identiche una dopo l’altra. Allora è importante stimolare il bambino verso l’apprendimento perlustrando sentieri e linguaggi differenti, tutti ammissibili e utili. Parlo ovviamente del computer che può essere utilizzato sia per le ricerche in rete che per la costruzione di schemi, approfondimenti, mappe, intrecciando concetti e immagini, video e tutto ciò che lo sconfinato mondo della rete offre per apprendere in modo personale e creativo. Ma parlo anche di fumetti, personaggi dei cartoni, canzoni, miti dello sport, youtuber, moda.Direi ai bambini: come si vestivano gli antichi greci che vivevano nella polis? Andiamo a vedere. Tu cosa indosseresti di quegli abiti? E di quei gioielli? Cerchiamo delle immagini, disegniamo, ritagliamo, incolliamo, appendiamo. Devi sottolineare i pronomi personali in questo brano? Se è troppo noioso, scegli un articolo di una rivista, un racconto, un’intervista di un personaggio che ami e fai la stessa cosa.E leggi, leggi, leggi. Qualsiasi cosa. In qualsiasi modo. Non importa tantissimo che sia il racconto sul libro di italiano, importa che tu legga con il piacere come unico criterio. Leggi quello che ti piace, anche se non piace a me, anche se non lo capisco, quando vuoi e dove vuoi. Fai amicizia con la lettura, prendici gusto, impara che può essere divertente se non è un obbligo ma uno dei modi più alti di esercitare la propria libertà. E se questo tempo denso e ovattato ti avrà insegnato l’amore per la lettura oltre all’analisi grammaticale, non sarà stato un tempo insensato.E scrivi, allo stesso modo. Non quello che desidero che tu scriva, ma quello che vuoi tu, che ti viene e come ti viene. Scegli un quaderno nuovo di zecca, solo tuo, e scrivi quello che ti va, quando ti va, disegna, incolla immagini, biglietti, tutto quello che serve. Senza vincoli, giudizi, intromissioni. Scopri che puoi farlo, liberamente, dando retta solo alla fantasia e ascoltando il tuo ritmo. Avremo tempo per migliorare la calligrafia e correggere l’ortografia, ma adesso scrivi, impara a buttar giù quello che hai nella mente e nel cuore.
- Il bambino segue l’adulto. Nel fare i compiti assieme, l’adulto ha l’opportunità di rivestire un ruolo attivo nel percorso di apprendimento del bambino, mettendogli a disposizione il proprio bagaglio di conoscenze e aiutandolo così a sperimentare uno sguardo lungo, che oltrepassa il limite dell’incombenza quotidiana e fine a se stessa, ‘sfruttando’ i compiti come strumento per allenare la curiosità e il gusto per la scoperta. Allora perché non portare i propri linguaggi nel mondo del bambino? Prendendo le mosse ovviamente dal libro di testo e mantenendo il focus dell’attenzione sul compito senza perdersi, ma andando ad esplorare nel mezzo altri argomenti, altre tematiche, altre storie, suggerite dal testo o semplicemente dalla fantasia, o da un ricordo, o da un’assonanza che sembra portare lontano dall’obiettivo e invece regala nuove conoscenze. È una modalità di apprendimento che di solito i bambini amano in modo particolare. Mentre si legge insieme un brano (fosse anche un teorema di geometria), se lo si fa con gli occhi e la mente aperti, c’è sempre una parola, un concetto, un suono che stimola nell’adulto un collegamento con un altro argomento, un libro letto tempo fa, un film, un ricordo, un aneddoto, una poesia. E da lì un altro ancora.Direi agli adulti: ogni volta che quello che stai studiando insieme al tuo bambino ti sollecita un pensiero, portacelo, fallo entrare. Vai a prendere quel libro che ti è venuto in mente, uno di quei volumi polverosi che parlano d’arte e che non sfogli da decenni, quella raccolta di poesie legata a quella storia e raccontagliela, e magari riscrivetela assieme, o disegnatela. Chiedi a lui cosa vuole farne. Non c’è lezione di geografia che non ti faccia tornare alla mente un viaggio, una vacanza: cerca le foto e racconta. E da lì apri un sentiero e vai avanti, magari con la musica, con la scena di un film che puoi trovare aiutandoti con il computer. Vuoi vedere che questi benedetti compiti possono servire a qualcosa di ancor più importante che stare in pari col programma?
Inutile dire che la parola che sottende questo approccio è tempo. È incredibile come improvvisamente abbia cambiato spessore e consistenza: prima sottile e quasi impalpabile, ora massiccia e ingombrante. Veniamo da anni in cui il tempo sembrava non esserci tanto andava veloce, una scia di luce sottile lasciata da un puntino (ciascuno di noi) lanciato a velocità folle verso un traguardo invisibile. Il tempo non era mai abbastanza, non c’era mai. Così non c’eravamo nemmeno noi. Potevamo concederci il lusso di non esserci, di non stare. Perché non c’era tempo. E per lo più abbiamo imposto ai bambini la stessa indomita frenesia, lo stesso ritmo convulso, la stessa smania di rincorrere una carota che penzolava davanti al naso, la medesima incapacità di stare. Non tanto di stare fermi (perché quello lo pretendevamo: quando serviva i bambini dovevano essere in grado di scalare quattro marce in un colpo solo e fermarsi, da trecento all’ora a zero in mezzo metro), quanto di soffermarsi. Nelle situazioni, nei pensieri, nelle emozioni proprie e degli altri.
Adesso, dentro alle nostre case, di tempo ce n’è talmente tanto, che sembra dilagare come un gigantesco airbag e schiacciarci contro la nostra incapacità di dominarlo, di riempirlo di senso, di farcelo amico. Mi torna in mente l’idea dell’horror vacui. Certo, un tempo smisurato e vuoto fa vacillare l’equilibrio di chiunque, ma se proviamo ad abitare un po’ alla volta questo gigantesco edificio che abbiamo a disposizione, non riempiendolo alla rinfusa, ma scegliendo con pazienza e senza paura una a una le cose da metterci dentro, cominciando da quelle importanti per noi, da quelle che ci servono davvero e ci fanno bene, forse questa immensa quantità di tempo può diventare un luogo accogliente in cui è bello stare.
Abbiamo tempo da perdere, suona incredibile. Ma anche da usare, da regalare, da condividere. C’è tempo per tutto e per tutti. Tempo denso e tempo vuoto e indolente. Tempo per noi e per gli altri. E ne rimane ancora. Possiamo giocare col tempo, farne ciò che vogliamo. Se ci passa lo sgomento, abbiamo l’occasione di affrancarci da un’assurda schiavitù autoimposta e di diventare almeno soci, di guardare questo tempo finalmente negli occhi e di scoprire che non fa poi tanta paura. Anzi, può essere un alleato straordinario.
Di tutte le lezioni che possiamo offrire ai nostri bambini, questa è certamente una delle più preziose. E come spesso accade, non servono tante parole ma può bastare riflettere sull’approccio che si utilizza per affrontare i compiti. Essi infatti possono rappresentare un obbligo imprescindibile da portare a termine il più velocemente possibile per corrispondere alla consegna dell’insegnante, oppure un tempo di condivisione e scoperta in cui apprendere tanto di sé oltre a nuove conoscenze.
In questo caso, tutto il tempo dedicato allo studio non inerente in senso stretto al compito quotidiano, non è tempo perso, ma tempo ritrovato e ricco di senso. Prezioso perché riconosce il giusto valore alla relazione tra bambino e adulto e mostra a entrambi l’importanza e la bellezza del pensiero libero e creativo, della ricerca, dell’approfondimento in luogo della superficialità.
Per questo la parola con cui vorrei concludere è lezione. Mi risuona talmente consueta che ho il dubbio di usarla senza più indagarne davvero il significato. Credo che il tempo che non c’è sia tristemente parente dell’ovvio, mentre il tempo ritrovato aiuti anche in questo senso, a ripensare alle parole del nostro bistrattato lessico abituale.
Forse vale la pena chiederci quale vogliamo sia la lezione che questa inattesa, persistente vita familiare straordinaria impartisca ai nostri bambini. Lascio ovviamente ai genitori le innumerevoli e personali risposte e mi permetto di proporne una relativa all’ambito specifico dei compiti, che credo possano costituire (non solo adesso) un veicolo privilegiato per scambiare significati importanti che vanno ben al di là della lezione da imparare per il giorno seguente.
Credo che autorizzare il criterio della flessibilità nella realizzazione di quello che per i bambini è un vero e proprio lavoro, regali loro l’esperienza impagabile di essere liberi responsabilmente, di poter affermare la legittima intenzione di esprimere se stessi all’interno di regole rigide, in questo modo più facilmente comprese e sostenute anziché stupidamente violate. I confini, i limiti, così come gli abbracci, sono benefici e utili: contengono, proteggono, riparano, garantiscono l’identità e aiutano a riconoscersi. Al contempo però, vincolano e rischiano di opprimere se li si subisce annullandosi in una confortevole posizione di adattamento. Forse, tra le tante, questa è la principale lezione che vorrei condividere con i bambini: a volte ci sono tele che sono belle così, libere, senza cornice; a volte invece ci sono tele che con la cornice sono più belle o addirittura ne hanno proprio bisogno: in questo caso la cornice va tenuta molto da conto, ma solo il cuore e la fantasia possono dirvi cosa e come disegnare sulla tela.
Giovanna Rodolfi
Studio DiSegni
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